Irma Bandiera, nome in codice: "Mimma", il volto della libertà

 



Nel buio fitto della Seconda guerra mondiale, quando le città tremavano sotto le bombe e l’Italia vacillava tra occupazione e paura, una giovane donna di Bologna scelse di non piegare la testa. Il suo nome era Irma Bandiera. Dopo di lei, non fu più solo un nome: divenne simbolo, divenne eredità.

La storia di Irma non è un racconto ordinario. È la narrazione di una ragazza borghese, che trasformando il dolore più lacerante, compì la scelta più coraggiosa. La sua vita è una testimonianza vivida e tangibile della forza con cui innumerevoli donne italiane – troppo spesso relegate all'oblio – divennero il motore propulsore della Resistenza.

Nata a Bologna l'8 aprile 1915, Irma proveniva da una famiglia benestante, eppure saldamente ancorata a valori democratici e al mondo del lavoro. Suo padre, Angelo, un capocantiere, e sua madre, Argentina, un'affettuosa figura materna, insieme alla sorella Nastia, dal forte spirito politico, e alla nonna Filomena, commerciante tenace di Funo, le infusero un'educazione improntata all'affetto e alla libertà. Fu in quella quiete della campagna bolognese dove Irma assorbì i princìpi destinati a guidarla fino all’ultimo respiro.

Irma era una figura indipendente, elegante, e dotata di un'acuta ironia. Amava la sartoria, considerandola una forma di espressione e di orgoglio personale. Ma dietro la sua grazia e la sua sobrietà, si celava una determinazione di ferro. In casa Bandiera si respirava un'insofferenza palpabile verso il regime,  in Irma, giorno dopo giorno, cresceva l'urgenza di prendere parte alla lotta.

Il 1943 segnò un punto di svolta drammatico nella sua esistenza: il fidanzato Federico, catturato dai tedeschi, scomparve tragicamente nel Mar Egeo. La ricerca disperata di notizie, il coinvolgimento delle autorità e degli amici, si rivelarono vani. Quel dolore, così profondo e feroce, fu la scintilla da cui nacque il suo impegno.

A Funo, Irma incontrò Dino Cipollani, nome di battaglia "Marco", uno studente di medicina già attivamente impegnato nella lotta antifascista. Fu lui a introdurla nei GAP, i Gruppi di Azione Patriottica. Con il nome in codice "Mimma", Irma entrò a far parte della VII Brigata "Gianni Garibaldi". Inizialmente staffetta, il suo ruolo crebbe rapidamente: trasportava armi, coordinava i contatti, organizzava nascondigli. La sua casa in via Gorizia a Bologna si trasformò in un quartier generale clandestino, la sua vita divenne un invisibile ma cruciale collegamento tra la città e la campagna.

Il 7 agosto 1944, dopo aver consegnato un carico di armi ai compagni di Castel Maggiore, Irma cercò rifugio presso uno zio. Due giorni prima, l'uccisione di un ufficiale tedesco e di un comandante fascista aveva scatenato una rappresaglia furiosa. I nazisti la catturarono, sapendo di aver arrestato una vera combattente e la condussero a Bologna.

Fu affidata alla Compagnia Autonoma Speciale, sotto la guida spietata del capitano Renato Tartarotti.

Sei giorni e sei notti di torture efferate, sevizie e umiliazioni. La accecarono con una baionetta, le spezzarono il corpo senza riuscire a infrangere il suo silenzio. Mimma non fece il nome di nessuno, salvando decine di vite.

Renata Viganò, partigiana e scrittrice, avrebbe poi scritto: «La più ignominiosa disfatta della loro sanguinante professione si chiamava Irma Bandiera.»

Il 14 agosto, la portarono al Meloncello, proprio sotto casa dei suoi genitori. Le intimarono di parlare, altrimenti non li avrebbe mai più rivisti. Lei li guardò e tacque. Le scaricarono addosso i mitra. Il suo corpo fu lasciato per ore sul selciato, un monito di sangue destinato a un popolo, che invece si infiammò di ribellione.

Prima di morire, riuscì a scrivere una lettera ai suoi familiari. In quelle righe, spiegò lucidamente alla madre il motivo che l'aveva spinta ad affrontare la morte con tale consapevolezza:

«Ditele che sono caduta perché quelli che verranno dopo di me possano vivere liberi come l'ho tanto voluto io stessa. Sono morta per attestare che si può amare follemente la vita e, insieme, accettare una morte necessaria.»

Il 4 settembre 1944, la federazione bolognese del Partito Comunista Italiano (PCI) diffuse clandestinamente un volantino che celebrava il profondo significato patriottico del sacrificio di Irma Bandiera. Il messaggio era un chiaro appello ai bolognesi per intensificare la lotta contro le forze nazifasciste. A testimonianza del suo impatto, le furono intitolati una Brigata SAP (Squadra di Azione Patriottica), attiva nella periferia nord di Bologna, e un GDD (Gruppo di Difesa della Donna).

Bologna non dimenticò. Anzi, reagì con forza. Mimma divenne la sorella di tutti. Il suo nome attraversò i muri, le barricate, i sogni di libertà. Dopo la Liberazione, le fu conferita la Medaglia d'Oro al Valor Militare. Nella motivazione si legge:

«Prima fra le donne bolognesi a impugnare le armi per la lotta nel nome della libertà, si batté sempre con leonino coraggio. Catturata in combattimento dalle SS. tedesche, sottoposta a feroci torture, non disse una parola che potesse compromettere i compagni. Dopo essere stata accecata fu barbaramente trucidata e il corpo lasciato sulla pubblica via. Eroina purissima degna delle virtù delle italiche donne, fu faro luminoso di tutti i patrioti bolognesi nella guerra di liberazione.»

E' sepolta nel Monumento Ossario ai Caduti Partigiani della Certosa di Bologna.

Al Meloncello, nel luogo dove fu abbandonato il suo cadavere, oggi, le è stata dedicata la via e una lapide ne custodisce la voce scolpita: «Il tuo ideale seppe vincere le torture e la morte. La libertà e la giovinezza offristi per la vita e il riscatto del popolo e dell'Italia.»

Aveva solo ventinove anni, ma Irma Bandiera ha vissuto e continua a vivere con il passo dei giganti. Perché ci sono nomi che non si dimenticano. E perché la libertà, quella vera, non si supplica: si conquista.

 

Michele Fiaschi


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